La calza

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Illustrator Patrizia Kovacs

C’era una volta una vecchia calza da camino che, da giovane, veniva sempre esposta sul grande camino di casa e la sera di Natale quando passava il grande Vecchio,  la riempiva di doni meravigliosi per i bambini della casa.

Poi il tempo era passato, i bambini erano cresciuti ed erano arrivati altri bambini, e la vecchia calza aveva perso il suo bel colore rosso, e a furia di essere presa di mano in mano si era un po’ rovinata e aveva qualche toppa, così non veniva più usata a Natale  e, al suo posto, sul camino c’era una calza giovane, giovane, nuova di zecca.

La povera calza si sentiva messa da parte ed era molto triste perchè nessuno la guardava più e stava abbandonata in un angolo tutta sola; eppure aveva reso felice i bambini di quella casa che ora l’avevano dimenticata.

Così un giorno decise: – me ne vado, cecherò fuori da qui qualcuno che riconosca il mio valore – e prese le sue poche cose, si appallottolò e, con un balzo, rotolò fuori dalla finestra.

Ah… che meraviglia, aria fresca, e un mondo nuovo da scoprire –  la vecchia calza si sentiva davvero bene, era proprio una bella avventura. Dopo un pò che rotolava di qui e di là, passò un bambino che scambiandola per una palla la lanciò per aria e … ohhhhhh, la vecchia calza non aveva mai volato così in altò e per un po’ rimase sorpresa a guardare il mondo così  lontano, ma poì cadde rovinosamente su un prato e rotolò fino al lago.

povera me, pensava la vecchia calza, sono propria finita male, come farò ad uscire da qui? –

In quel momento, una piccola paperella, scambiandola forse per un ghiotto pezzo di cibo, la beccò piano facendole un gran solletico e la fece arrivare a riva. La vecchia calza esausta si srotolò e resto sull’erba; era bagnata fradicia e faceva davvero freddo, ma complice un leggero sole, dopo un po’ era di nuovo asciutta.

Mentre stava pensando a cosa l’aspettava, passarono due bambini vicino al lago e la bambina disse – Guarda, una calza di Natale – la bambina la prese  e infilò la sua manina per scovarci qualche tesoro.

-Non c’è niente dentro, ma è proprio calda, la userò come scaldotto per le mie mani-  disse la bimba, e detto fatto, la vecchia calza  era diventata uno scaldotto da mani e la bambina, che aveva le mani gelide, se la stringeva al petto  e ripeteva – sono stata molto fortunata a trovare questa calza –

La vecchia calza era davvero contenta, ora, perchè finalmente era ancora utile a qualcuno e si sentiva importante. La bimba la portò nella sua povera casa e la mostrò alla mamma raccontandole di come le avesse scaldato le manine gelide, e la vecchia calza fu così fiera che si  commosse fino alla lacrime.

E da allora, ogni Natale, la vecchia calza fu appesa al camino di casa per attendere i doni del Natale e nessuno la trovò mai più, troppo vecchia o poco elegante,  e quando la bambina diventò grande, la calza fu usata per  i suoi figli, e poi per i figli dei suoi figli.

– E’ proprio come la nostra calza- dissero  felici Keil e  Gemma  indicando la loro vecchia calza appesa al camino. La nonna, in silenzio,  guardò la vecchia calza rossa rovinata dal tempo e piena di toppe e,  con gli occhi lucenti,sorrise.

 

 

 

L’attesa del Re

Il vecchio Re desiderava stare da solo: si allontanò dal castello e si incamminò sul sentiero che si perdeva nel bosco; conosceva bene i suoi percorsi, i suoi segreti e le sue magie e non lo temeva, anzi, lo rispettava.

Quando era un giovane Re pieno di entusiasmo e coraggio si era spesso addentrato, spavaldo, nelle sue parti più oscure per cercare le streghe e vincere i loro incantesimi,  e aveva vagato  con lo sguardo confuso dell’amore per vedere le fate, e il bosco complice aveva esaudito il suo desiderio e gli aveva fatto incontrare l’amore.

Ma le fate non possono amare gli umani e i Re devono pensare al loro Regno.

Aveva combattuto mille battaglie, vinto Re e valorosi soldati, aveva avuto ogni onore e ricchezza ed era diventato vecchio e saggio, potente,  benvoluto ed amato da tutti i suoi sudditi.

Aveva avuto sette mogli, e ognuna di loro gli aveva dato sette figli, che lo amavano e lo rispettavano. Ma ora, che il tempo aveva segnato il suo volto e inciso la sua anima, ora che aveva avuto tutto e poteva goderne i frutti, non era felice.  Era stanco: aveva servito il suo ruolo, il suo reame, il suo popolo, ma non aveva mai dimenticato l’unica ricchezza che non era riuscito ad avere. Non era più tornato nel Bosco Incantato, da tantissimi anni, ma ora sentiva il bisogno di tornarvi.

Il Bosco lo accolse con la brezza fresca e profumata  del mattino e lasciò che il sole penetrasse tra i rami dei suoi alti alberi per illuminargli la strada: il saluto ad un vecchio amico, l’incontro di due Re.

Il vecchio Re respirò a lungo, grato, l’odore di umido e resina e si sentì bene.

Ora sapeva cosa doveva fare. Arrivò al punto più profondo e pericoloso del vecchio bosco, fino al Trono antico, costruito e intagliato dagli elfi silvani mille anni prima  e protetto dai saggi del bosco. Lo guardò e lo sfiorò con rispetto, poi con un sospiro, si tolse la sua corona e la appoggiò sul trono.

Proseguì il suo nuovo cammino, senza nemmeno voltarsi, con una nuova energia e un nuovo vigore.

Si narra che la corona del Re sia ancora là,  sul Trono antico, e il veccho Re abbia vagato anni e anni per il bosco cercando la sua amata; non sappiamo dirvi se l’abbia trovata ma si narra che da allora il Re fu un uomo felice.

Il sentiero continua per voi, non fermatevi, potreste arrivare al Trono Antico…

Le fate

Lo vedete? Seguite il sentiero, limitato dai grandi cespugli di sambuco selvatico, che si apre davanti a voi  e camminate, con calma, senza dimenticarvi di respirare a fondo.

Annusate il bosco, sentite il suo odore di umido e verde, e ascoltate i suoi rumori, la sua vita; camminate fino al grande tronco tagliato e lì, fermatevi e guardate.

Guardate e aprite il tuo cuore alla sorpresa: il bosco regala piccole meraviglie a chi sa guardare con attenzione.

Forse vedrete le fatine che vivono nelle grandi foglie dei castagni secolari e che, ogni mattina  prima che sorga il sole, vanno a specchiarsi nel vicino  lago  e aspettano il primo raggio dorato per vedersi riflesse nel suo bagliore.

Sono bellissime creature,  normalmente gioiose e solari,   che temono l’uomo ma anelano al suo mondo e  alle sue emozioni perchè sono negate ai loro piccoli cuori, soprattutto l’amore.

Lo sapete no? Se una fatina si innamora perde la sua bellissima luce, e perde il suo potere, ma a volte  il loro desiderio di provare l’emozioni dell’uomo è così forte che  si dimenticano della bellezza che hanno intorno e diventano tristi.

Piccole fatine… se sapessero quanto  è diffuso il loro sentire, nell’uomo  a cui vogliono tanto assomigliare,  forse non lo desidererebbero più  così tanto.

Fortunatamente basta poco a farle sorridere di nuovo:una pioggia leggera che rinfresca il loro bosco, o il vento gentile che le culla nella loro scia, e loro dimenticano la tristezza perchè hanno una piccola anima pura.

Anche un piccolo gesto gentile le rende felici, e fa brillare i loro piccoli occhi verderame; non dimenticatelo se avete la fortuna di incontrarne una.

Ora proseguite il cammino, il bosco ha altre storie da raccontarvi…

Piuma d’oro

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Illustrator Patrizia Kovacs

 

Le bellissime fiabe di Luigi Capuana,  le meravigliose storie dei suoi personaggi: reucci ingiusti , streghe, nani, e bimbe con la testa di rospo;  reginotte e principesse e semplici contadine,  a volte  leggiadre fanciulle e a volte giovani donne “brutte come il peccato” come la piccola Tizzoncino che nonostante questo è sempre di buon umore.

O come Piuma D’Oro, una principessa “bella come la luna e come il sole” ma così capricciosa, irrispettosa  come può esserlo solo una bimba che i genitori non sgridano mai.

E per questo viene punita dalla vecchina – in realtà una strega –  che ha maltrattato:

La mattina dopo, nel punto d’andar via, la vecchia trovò sul pianerottolo la Reginotta che l’aspettava: Vecchina, donde venite e dove andate? Vecchina, che ricordo mi lasciate?

E colei rispose, brontolando: Dove vado e donde vengo, C’è la pioggia e soffia il vento. Tu col vento ci verrai, Con la pioggia te n’andrai.

La toccò col bastone, scese le scale e sparì. Da quel giorno, la Reginotta cominciò a scemare di peso. Non dimagriva, non diventava brutta, aveva la giusta crescita, ma da un mese all’altro si sentiva sempre più leggera. Arrivata a diciott’anni, all’apparenza era una ragazza bella, bianca di carnagione, con un mucchio di capelli d’oro, ma pesava meno d’una piuma, e il più lieve soffio la portava via. Figuratevi la disperazione del Re e della Regina. Bisognava tener chiuse tutte le finestre del palazzo reale; non potevano condurla fuori per paura che il vento la trasportasse chi sa dove. E siccome la poverina a star rinchiusa s’annoiava, e il Re e la Regina non volevano che la gente sapesse la disgrazia della loro figliola, così per svagarla passavano le giornate a soffiarle attorno e a farla volare per i corridoi e per gli stanzoni del palazzo.

Ella si divertiva immensamente a sentirsi sballottare per aria, e gridava: – Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà! Il Re e la Regina ci rimettevano i polmoni per farla andare in alto. Ma più alto ella saliva, e più forte gridava: – Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà! Re e Regina non potevano mica stare tutto il santo giorno a fare da soffietto; e la Reginotta s’imbronciava e piangeva. Vedendola piangere, i poveri genitori tornavano subito a soffiare, il Re da una parte e la Regina dall’altra; e lei, riprendendo subito il buon umore, batteva le mani: – Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà! La facevano montare fino al soffitto, le correvano dietro per i corridoi, soffiando, soffiando, soffiando per farla stare allegra, poiché quella povera figliola non poteva avere altro svago; e quando si riposavano, ansimanti dall’aver soffiato troppo, Re e Regina si lamentavano: – Figlia disgraziata, chi ti ha fatto questa malia?”

La vedete anche voi, Piuma D’Oro che volteggia fra le alte stanza del castello? Un’immagine resa incantevole dalla bellissima scrittura di Capuana, che ha reso magiche le storie della nostra tradizione, che non vanno dimenticate!

Piuma D’Oro decide di affidarsi al vento e continua il suo viaggio… continua anche la fiaba… a breve vi faremo una sorpresa

La signora di Gollerus

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            Puoi avere l’amore con l’inganno, ma il cuore conosce ogni verità…

“Una bella mattina d’estate, proprio allo spuntar del giorno, Dick Fitzgerald stava sulla spiaggia del porto di Smerwick a fumare la sua pipa”

Dick il pescatore, ammira il sole che sta sorgendo e pensa commosso che quello che gli manca è proprio una moglie con cui condividere quell’ emozione. E mentre passeggia pensoso, scopre vicino ad uno scoglio una creatura bellissima che si pettina i capelli colore del mare.

Dick indovinò subito che si trattava di una sirena, anche se non ne aveva mai vista una prima di allora, perchè aveva scorto, appoggiato sulla spiaggia, accanto a lei , il piccolo berretto magico che il popolo delle acque usa per tuffarsi nell’oceano.”

Tutti sanno che senza il cappellino magico, rosso a tre punte, le Sirene non possono tornare in acqua…

Così Dick, già perdutamente innamorato della giovane Sirena le ruba il cappellino e quando lei scoppia  in lacrime credendo  di averlo perso, lui è pronto a consolarla. Il gioco è fatto; la Sirena non può tornare nel suo mare e Dick se la porta a casa, e i due si innamorano.

Così Padre Fitzgibbon sposò Dick Fitzgerald alla Sirena e come una qualunque coppia innamorata essi se ne tornarono a Gollerus ben contenti.”

Dick è un uomo felice; la sua giovane moglie è attenta e premurosa,  e dopo tre anni i due hanno tre figli che lei accudisce con amore.  E il cappellino? Dick lo tiene nascosto nei suoi attrezzi da pesca, ben attento a non farlo trovare alla sua adorata moglie, ma con il passare del tempo diventa disattento ed un giorno che deve recarsi a Traale, lei si mette a fare pulizie e lo trova.

La Sirena si siede con il suo cappellino fra le mani, ed in un attimo si ricorda la sua vita precedente, il suo mare, suo padre, il Re delle Onde, e tutto quello che ha perso e le viene voglia di tornare a casa. Solo per una visita, perchè la Sirena pensa ai suoi figli e all’amore di Dick e sa che gli spezzerebbe il cuore se la dovesse perdere.

Ma – dice- non mi perderà del tutto, perchè tornerò da lui.” Così dopo aver baciato i suoi figli, esce di casa e si dirige verso il mare, e avvicinandosi all’acqua, crede di sentire un dolce canto, che la invita ad entrare; si infila il cappellino, e in un attimo tutto la sua vita precedente la avvolge: Dick e i bambini sono subito dimenticati.

La sera Dick torna a casa e si accorge della mancanza della moglie, e si dispera quando i vicini gli raccontano che l’hanno vista camminare sulla spiaggia con in mano uno strano cappellino rosso.

La leggenda racconta che Dick non ha mai smesso di credere che lei sarebbe tornata, sicuro che lei  non avrebbe mai abbandonato suo marito e i suoi figli, perchè era sempre stata una madre ed una moglie modello;  lo racconta a chiunque voglia ascoltarlo, tanto che negli anni a venire gli abitanti del villaggio parlarono di lei come La Signora di Gollerus.

Dick non ha mai smesso di attenderla. La leggenda racconta che ancora oggi la sua anima inquieta cammina sulla spiaggia aspettando di rivederla, seduta accanto allo scoglio mentre si pettina i lunghi capelli colore del mare.

 

La signora di Gollerus – Fiabe Irlandesi – William Butler Yeats

La donna senza amore

 

Patrizia Kovacs

Patrizia Kovacs

Maria aveva sete; avevano camminato a lungo senza fermarsi e durante il cammino non avevano trovato un solo goccio d’acqua.

Arrivarono nel piccolo villaggio e finalmente videro un piccolo pozzo. Giuseppe andò lesto per prendere l’acqua,  e si accorse della donna seduta accanto al pozzo, appoggiata alla pietra, il viso pesantemente truccato e gli occhi accesi che mandavano false promesse.

Lei lo guardò, fermandolo, con il sorriso malizioso che riservava agli uomini da quando era diventata donna;  un sorriso che li attirava ma  nessuno di loro aveva mai visto l’infinita tristezza che vi si celava dietro.

Quella era la sua vita, figlia di mille padri, come lo era stata prima quella di sua madre.

Con una mano tirò il mantello di Giuseppe per chiamarlo, e vide il suo sguardo confuso. Poi vide Maria, minuta ed affaticata,  che si avvicinò a lei, con uno sguardo dolce;  Maria  le si inginocchiò davanti e presole il viso tra le mani le diede un bacio.

La donna non si accorse subito delle proprie  lacrime che le rigarono il viso, ma sentì il calore allo stomaco dell’Amore che non aveva mai provato in vita sua. E pianse, pianse a lungo, lavando via, per sempre, il trucco pesante dal viso.

Baciò le mani di Maria, e prese l’acqua dal pozzo per farla bere.

Ti regalo una storia. Elena e la fata

Chi l’ha detto che le regole non possono cambiare? Nelle fiabe tutto è possibile… Anche la ribellione di Cenerentola! Ecco la storia e il disegno di Elena.

La principessa alzò lo sguardo. L’orologio del palazzo reale l’avvisò che mancavano solo cinque minuti; le lancette si sarebbero sovrapposte e l’incantesimo sarebbe svanito. La carrozza sarebbe tornata ad essere una zucca, i cavalli bianchi dei topini e lei si sarebbe ritrovata ad indossare una semplice vestaglia e non più un bellissimo vestito da gala.In tutta fretta la principessa abbandonò le braccia del principe che la guardò allontanarsi nel pieno sconforto, paralizzato dallo stupore, lasciando a metà l’ennesimo walzer che stavano danzando insieme.

«Perché devo lasciare tutto questo? Proprio adesso che ho trovato il principe dei miei sogni!» Mentre continuava a pensare quanto fosse ingiusta e assurda tutta quella situazione, Cenerentola si precipitò giù per la scalinata che portava nell’atrio d’ingresso del palazzo, perdendo nella corsa una scarpetta di cristallo. Cenerentola arrivò alla carrozza dove ad attenderla c’era la Fata. «Forza mia principessa, non abbiamo più molto tempo, tra pochi minuti scoccherà la mezzanotte e l’incantesimo svanirà». La principessa fissò la Fata Turchina nei suoi grandi occhi azzurri; vide la sua preoccupazione e in quel momento capì. «Non posso tornare a casa ora, Fata».

“Cosa? Ma… Ma… Principessa, se ti scoprono la tua matrigna e le tue sorelle cosa diranno? Probabilmente ti terranno segregata in casa a far pulizie per almeno un anno!».

«Hai ragione Fata», rispose Cenerentola, «ma per una volta non voglio nascondermi e non voglio andarmene. Le sorelle e la matrigna hanno avuto fin troppo potere su di me, quindi per una volta farò ciò che sento io, e non ciò che vogliono loro. E poco importa se non condividono le mie scelte o se si arrabbiano. Se ne faranno una ragione.»

«E con l’incantesimo cosa pensi di fare? Ti rammento che manca un minuto esatto a mezzanotte».

«Pazienza Fata. So per certo che il principe mi saprà apprezzare per quel che sono. Anche se non indosso un abito bellissimo come questo». La Fata si grattò la sua chioma blu elettrico, pensierosa. Il coraggio e la determinazione di quella ragazza l’avevano spiazzata. Forse aveva ragione, era venuto il momento di cambiare le regole, il corso della fiaba e agire diversamente.

«Ok, ragazza mia. Mi hai convinto: al diavolo le sorellastre e la matrigna. Fai le cose a modo tuo. Torna dal tuo principe e alla festa. Se avrai bisogno di qualcosa, basta che farai un fischio e io verrò in tuo aiuto».

Cenerentola abbracciò la Fata, consapevole di poter contare su un’amica fedele. La principessa s’incamminò nuovamente per le scale, si rimise la scarpetta perduta e tornò alla festa. E la fiaba cambiò.

fata

Ti regalo una storia. Arturo

gatto rosso

Era stata una giornata lenta, con il tipico sole pallido di fine settembre. Il tardo pomeriggio portava sempre un vento caldo e appiccicoso. Strano, aveva fatto un tempo orribile tutta l’estate; aveva piovuto un sacco. Non era stato facile stare molto all’asciutto. L’erba del grande campo, dove andava spesso a cacciare, rimaneva bagnata per giorni e spesso aveva dovuto dormire sotto qualche macchina parcheggiata, e credetemi, non è il massimo. Si stirò, piegando il corpo in avanti, con eleganza, tirando le zampette anteriori e poi stirò quelle posteriori. A lungo. Poi si guardò intorno. Era ora di mangiare. Hm… avrebbe dovuto aspettare ancora un po’ per cacciare i topolini di campagna, che arrivavano nel campo solo quando faceva buio. Si incamminò pigramente verso la strada. Il portamento di un guerriero, fiero, ma con qualche ferita di troppo, il pelo rosso un po’ sciupato – insomma dormire per strada non permetteva spazio alla pulizia – un gattone con pazienti occhi verdi che aveva visto tante cose, e non tutte piacevoli.

Si chiamava Arturo, ma in realtà lui non lo sapeva, aveva 5 anni e un ricordo lontano di una casa. Proprio cosi, anche lui aveva avuto una casa, con un giardino, una famiglia con due piccole umani che lo coccolavano e, a volte, lo disturbavano e lui era costretto a scappare sul grosso melo del giardino. Con i suoi occhioni verdi guardava il suo piccolo mondo da lassù. Ogni tanto andava in giro ad esplorare la vita fuori dal giardino e qualche volte si era azzuffato con lo stupido gatto nero che abitava nella casa di fronte.

Lui era più forte. La pappa era regolare e abbondante. Insomma, era felice.

Poi, un giorno, era successo. Per giorni c’era stata tanta gente in casa che andava e veniva, e lui, come tutti i gatti, abitudinario e poco incline al chiasso, stava rintanato tutto il giorno sul melo a guardare tranquillo tutto quel traffico. Poi era tornato tutto silenzioso. Anche troppo. La casa era vuota. Altre volte era successo che la sua famiglia di umani andasse via per qualche giorno, ma tornavano presto e, soprattutto, lasciavano la pappa per lui sotto il portico dell’ingresso. Arturo aspettò per qualche giorno e poi capì che era rimasto solo. Loro se n’erano andati via.

Arturo si era sentito molto triste. Nel mondo dei gatti questo non sarebbe successo. Ed ora? Cosa avrebbe fatto?

Dopo qualche giorno erano arrivate delle persone nuove a visitare la casa. Arturo, che stava morendo di fame, era sceso dal suo albero e si era avvicinato alla femmina umana, ancheggiando ed emettendo le sue fusa migliori. La donna non si era accorto di lui, fino a quando aveva sentito qualcosa di peloso che le si strofinava fra le gambe e, abbassando lo sguardo, aveva visto quel gattone sporco.

Con un gesto della gamba l’aveva allontanato in malo modo. «Via gattaccio sporco! Io non voglio animali qui, via pssss! Pussa via».

Arturo non era mai stato trattato cosi. Si era spaventato tantissimo ed era scappato nuovamente sul suo albero, e vi era rimasto per tutto il giorno fino a che la donna, con cattiveria, era arrivata con la sua scopa per farlo scappare

«Via gattaccio, via di qui. Non ci devi proprio stare qui! Viaaaa».

Arturo era scappato fuori dal giardino, cacciato da quella che era stata la sua casa. Quel giorno, aveva imparato cose nuove. La prima, è che se sei triste, senti qualcosa di strano allo stomaco, come un nodo. La seconda, era che gli umani quando sono cattivi hanno un odore particolare. L’odore che aveva quella donna.

Un odore che purtroppo avrebbe sentito spesso nei mesi successivi. L’aveva sentito nei tre ragazzi che aveva tentato di usarlo come bersaglio per le loro fionde.  Il primo colpo l’aveva preso di striscio sul fianco e aveva fatto un salto per il dolore. Aveva sentito l’urlo vittorioso dei tre stupidi umani, e il loro cattivo odore gli era rimasto addosso per giorni.

Aveva incontrato altri umani dopo quel giorno, lui sempre più diffidente, e loro sempre poco gentili. Una volta una vecchina, gli aveva dato un po’ da mangiare, incurante del suo aspetto trasandato, e aveva cercato di fargli una carezza, e lui, che aveva sentito il suo odore diverso, l’aveva lasciata fare. Era stato bello sentire quei grattini fra le orecchie. Ma poi, la vecchina era andata via e non era più tornata. Gli aveva fatto ricordare cos’erano le coccole, ed era un ricordo doloroso perché era qualcosa che aveva perso. Così aveva deciso che non avrebbe più voluto ricordare. Andava in giro, cercando cibo in giro, nell’immondizia o nei campi, e vivendo alla giornata.

Stava alla larga dagli umani. A volte sentiva ancora quel nodo allo stomaco e guardava lontano con i suoi occhi verdi.

Era arrivato in quel grande campo da qualche giorno, ed era un buon posto perché c’erano un sacco di topolini da cacciare. Aveva appena fatto un riposino, e ora era indeciso sul da farsi. Quasi quasi poteva farsi ancora un sonnellino. Troppo tardi sentì l’ansimare dei cani che stavano correndo verso di lui. Due bestie nervose che lo stavano puntando, e dietro, gli stupidi umani con i loro fucili. Arturo ne aveva visti altri.  Conosceva il loro odore.

Ariaa!!! Corse con tutto le forze verso l’unica possibilità di salvezza: un grosso muro grigio che dava su un giardino. Non ci pensò un attimo. Un grosso balzo e fu dall’altre parte. Il cuore in gola. Sfinito. Dietro il muro, i 2 cani continuavano a correre intorno inutilmente, annusando il suo odore.  Arturo fece un sospirone e si guardò intorno. Si trovava in un bellissimo giardino, pieno di piante su cui poter scappare, e una casa con tante finestre. Non vedeva umani, e decise di restare un po’ lontano a studiare la situazione. Si concesse un pisolino. Quando si risvegliò due occhioni lo fissavano con attenzione. Una piccola umana stava accovacciata davanti a lui. Arturo diffidente, come al solito, si preparò alla fuga, ma poi senti il suo odore diverso da tutti: era un odore buono, che si mischiava all’odore della paura e del dolore. Arturo aveva conosciuto entrambi. La bambina gli tendeva la mano. «Micio, ciao micio vieni, non ti faccio del male».

Arturo si avvicinò e annusò ancora l’aria per sicurezza, e poi decise che andava tutto bene, quella piccola umana gli piaceva. Strofinò il muso sul mano della bimba e cominciò ad emettere della sonore fusa

La bambina rise estasiata. «Povero micio, sei un po’ malridotto», lo accarezzò e poi fece una cosa che Arturo non si sarebbe mai aspettato: lo prese in braccio. Il suo primo istinto fu quello di divincolarsi, ma poi la bimba lo strinse a sé, e Arturo sentì il suo cuore che batteva forte, e quell’abbraccio fece battere forte il cuore anche a lui.

La bimba si diresse verso la casa.  Arturo non sapeva bene cosa aspettarsi. Entrarono in casa, e arrivarono altri 5 piccoli umani. Anche il loro odore era buono e diverso, misto a quello della sofferenza. Uno di loro soprattutto. Gli si fecero tutti intorno e cominciarono a coccolarlo. Arturo non aveva mai fatto così tante fusa…  Quel giorno mangiò un sacco. E la sera, quando ormai faceva buio, invece di mandarlo via la bambina con gli occhi grandi lo prese in braccio, nascondendolo sotto un maglione, e se lo portò nel lettino con sé.  Arturo si accoccolò sotto le coperte accanto alla pancia della bimba e si addormentò in un attimo.

Così, iniziò la sua nuova vita in quella casa. Arturo aveva capito che quella non era un famiglia normale. C’erano i bambini, c’era un’umana grossa con un adorabile odore di cibo, che stava sempre in cucina e gli dava sempre delle buone cose da mangiare, e c’erano alcune persone che andavano e venivano. Si era adattato subito. I bambini facevano a gara per coccolarlo e farlo giocare, e Arturo stava dimenticando i tempi in cui era stato solo e triste. Questa era una bella vita. Ogni sera, le finestre della camere, in qualche modo, rimanevano sempre aperte, e lui sgattaiolava nel letto della bambina, che in silenzio, lo faceva acciambellare sotto le coperte. A volte, però, andava da uno dei bambini, quello che non giocava e non parlava con nessuno. Entrava nella sua cameretta e, quando lo vedeva ancora sveglio e annusava la sua ansia, gli si acciambellava sulla pancia e lo faceva addormentare con il rumore regolare delle sue fusa.

Arturo era contento. Gli piaceva stare con loro. Sentiva sempre di più il loro odore buono, e non era più tanto strano ora.

Il dottor Federici parcheggiò l’auto nel portico, vicino al giardino. Erano le 7.00. Chiuse la macchina e si diresse verso la Casa Famiglia in cui lavorava da oltre 5 anni. Ogni martedì, mercoledì e venerdì andava a visitare i bambini che vi vivevano, li faceva parlare, li somministrava le terapie e li ascoltava. Martina, Tommaso, Angelica, Marco, Federico e Sara. Troppo piccoli per il dolore che avevano conosciuto; troppo piccoli per aver già conosciuto l’abbandono, la rabbia e l’incapacità dei loro genitori. Con un bisogno di amore infinito da cui scappavano. All’interno della Casa Famiglia avevano ritrovato una piccola parte di serenità, qualche punto fermo, ma c’era ancora tanto lavoro da fare.

Aprì la porta del suo ufficio, ma prima, si diresse verso la cucina per bere un po’ d’acqua. E lo vide.

Accovacciato sulla base di marmo in parte al lavello stava un gatto rosso. Un gattone, a dire il vero.

«Eccoti qua, finalmente ti vedo!» disse Il dottor Federici. Allungò la mano verso il muso di Arturo e lui lo annusò. Tutto ok. Lo guardò con la calma rilassante dei suoi occhi verdi.

Per mesi, il dottor Federici aveva finto di non vedere quella palla rossa che veniva nascosta in sua presenza, sia dai bambini –  Martina lo copriva sempre con il suo maglione, una sorta di coperta di Linus, e regolarmente lasciava fuori la coda – sia  dagli educatori, che cercavano di distrarlo, quando lui sfrecciava nel  corridoio.

Aveva finto di non vedere Anita, la cuoca che si occupava del pranzo e delle cene dei bimbi, che al suo arrivo, faceva sparire maldestramente, piattini colmi di cibo.

Non aveva detto niente, perché aveva notato il cambiamento nei suoi bambini; erano più allegri, e sereni. Martina aveva perso quell’aria smarrita, e Tommaso, incredibile, si lasciava toccare dagli altri bambini, proprio lui, che da sempre, era terrorizzato dal contatto con altre persone.

«Anche tu sei un po’ cambiato» disse Il dottor Federici ad Arturo. «Mi sembra che tu abbia messo su qualche chilo… mi sa che ti piace la nostra cucina». Lo grattò fra le orecchie, una coccola che Arturo adorava.

«Ok! Ora posso darti ufficialmente il benvenuto nello staff, micione, te lo sei guadagnato».

Arturo si girò sulla schiena, mostrando la pancia per farsi coccolare. Un gesto di grande fiducia. Era a casa.

gatto rosso muso

Dedicato al mio gattone rosso Arturo. Sei sempre nel mio cuore. Maria

Disegni di Chiara

 

Ti regalo una storia. Terra Nova

C’era una volta un mondo chiamato terra, talmente sovraffollato ed inquinato da far sì che il Consiglio dei grandi Saggi decise che una parte della popolazione trasmigrasse su un pianeta, per colonizzarlo e creare una terra 2.

Alina rimase come sempre stupita nel sentire, di nuovo, il racconto che spiegava perché si trovasse lì, nell’astronave Madre: «Siamo in 123 bambini!». Disse Giorgio. «Siamo i nuovi pionieri», controbatté Lietta. Alina, sospirò e col nasino all’insù guardò verso la grandissima cupola di cristallo che la sovrastava: la meraviglia della costellazione di Orione era dinanzi a lei; un turbinio di stelle e pianeti che sembravano danzare in un profondo mare di velluto blu.  «Guarda Giorgio, osserva Lietta… ci stiamo avvicinando a casa!». I bimbi risero e, come erano soliti fare, la ignorarono; per loro era solo una piccola bimba che possedeva troppa fantasia; loro si sentivano dei piccoli geni ipertecnologici. Come darle credito e fiducia, visto che dalla antica terra, si era portata solo una manciata di semini inutili? Quel viaggio per Alina era stato solo triste; non riusciva a stringere amicizia con i suoi compagni. “Amo i fiori, il sole e le stelle, perché mi considerano così primitiva?” Pensò Alina. Non vi erano risposte, quindi restò lì immersa nella visione dell’universo danzante, brulicante di scintillii stellari. Ogni tanto posava lo sguardo sul tavolo di acciaio lucidissimo, dove tutti i suoi compagni si dilettavano con pc positronici, esercizi di fisica quantistica ed altri marchingegni che per lei erano solo un insieme di un magico intruglio matematico. Così passarono i giorni e finalmente… eccolo lì il suo nuovo mondo: giallo, brullo; colline spoglie sferzate da venti tiepidi, ma meraviglie delle meraviglie, ruscelli di acqua limpida e splendidi pesci dorati che giocavano fra le onde: Terra Nova era la sua nuova casa.  Sempre più sola ed isolata in questa sua nuova vita, osservava i suoi compagni sempre più immersi nei loro giochi algebrici, tutti intenti a creare dalla nuda terra nuovi cibi sintetici. «Alina, dai, guarda le stelle, stupida bambina, perché quelle ti nutriranno». Tutti ridevano e lei era sempre più triste.

bambina terra nova

“Ok, niente amici, allora, saranno i pesciolini i miei amici”. Pensò contenta, e si mise in riva al ruscello ad osservare i loro salti di gioia nel vederla arrivare. Fu così che per premiarli gettò loro i semini per nutrirli ma nel farlo, le acque del ruscello all’improvviso sussultarono, e come per magia depositarono i semi sulla riva. Alina, all’improvviso si rese conto che i semini fremevano leggermente, ed ecco all’improvviso una foglia e poi un’altra, uno stelo d’erba, una timida margherita spuntava ed ancora e ancora… In men che non si dica ciliegi, albicocchi, olivi, querce, cipressi e castagni, prati sterminati di fiori, campi di grano, ricoprivano ogni anfratto; i girasoli diventavano immense distese di colori. Terra Nova era un brulichio di vita e di profumi. Fu allora che Alina si girò verso il campo base: tutti i suoi compagni erano lì fuori, lo sguardo attonito e la bocca spalancata al cospetto di tanta bellezza. Alina sorrise, e tese le mani verso il cielo, e con tutta la voce che aveva urlò: «ora sì che possiamo giocare!». A quel punto, tutti le andarono incontro sorridendo e piangendo per la gioia di aver capito finalmente l’essenza della vita. Da quel giorno, la felicità scese su Terra Nova, ed è tuttora il pianeta più bello dell’universo.

Morale: PC, Tablet, ecc., sono solo strumenti per aiutare la mente; stelle e fiori sono l’essenziale per nutrire anima e la fantasia.

Scritta e disegnata da Elisabetta.

Ti regalo una storia. Cappuccetto Rosso e il Lupo

Ogni mattina la mamma preparava il cestino, abbracciava la bimba e le faceva le solite raccomandazioni: «mi raccomando piccola, fai solo il sentiero e non uscirne, non guardarti in giro, per favore, e non fermarti a raccogliere i fiori o a giocare con gli scoiattoli. Bacia la nonna e raccomandati che beva tutto il brodo». Quando la bambina si stava già incamminando sul sentiero, arrivava l’ultima… la più importante. «Torna a casa prima del buio, e attenta!».

La mamma diceva sempre quell’ultima parola con una tono diverso dal solito. Una sola parola che diceva tutto, una sola parola che era l’essenza di una paura atavica e senza rimedio. E ogni volta la bambina provava un brivido incontrollato.

Anche quella mattina, come ogni mattina, la nostra bimba si incamminò sul sentiero di ginestre e rampicanti rosso-gialli; il cestino carico di cose buone per le nonna, e già lo sguardo distratto dagli scoiattoli che si rincorrevano fra le umide felci. La giornata era bellissima, una perfetta mattina di settembre; il sole alto nel cielo, azzurro e senza nubi. Gli uccellini cinguettavano e le api avevano già iniziato il loro laborioso viaggio tra un fiore ed un altro. Il sentiero sterrato si apriva su una natura rigogliosa e forte che ancora non cedeva alle prime avvisaglie autunnali, anzi sembrava ancora estate piena.

Troppe cose da vedere… La bambina si fermò sul sentiero, si sfilò il cappuccio e cominciò a correre fuori dal sentiero, saltando le grosse radici dei castagni e qualche vecchio tronco caduto.  Ad un certo punto il bosco si apriva su una pianeggiante radura che si affacciava su un piccolo lago, freschissimo, calmo e così invitante! Si sedette subito in riva al lago, in un tratto di terreno scosceso che scivolava pigramente nell’acqua, si sfilò le scarpe facendole volare, una, su una macchia azzurra di piccoli fiori, e l’altra, quasi centrò in pieno un grosso e indaffarato scarabeo dalla grossa corazza verde scintillante.

Con i piedini a mollo nell’acqua cominciò a rilassarsi, le mani incrociate dietro la testa e gli occhi chiusi, quasi si appisolò, cullata dai rumori rassicuranti dalla natura; il fremito delle foglie mosse dal leggero vento, il ronzare incessante degli insetti e l’armonioso cinguettare degli uccelli.

Si stava quasi addormentando, addormentando davvero, quando improvvisamente: nessun rumore, un silenzio totale e gelido. Il bosco si era come… fermato. La bimba smise quasi di respirare, senza aprire gli occhi, e per questo non vide, nell’ombra di un grosso cespuglio di more, i due occhi, due ardenti e terribili bracieri, che la stavano guardando.

Ma li sentì, come un alito di freddo gelido…

La bimba si mise seduta, ora sorridente, quasi impaziente. Improvvisamente il grosso e bellissimo esemplare di giovane lupo saltò fuori dai rami intricati del cespuglio, maestoso nella sua forza, potente nella sua giovinezza, ma con già negli occhi, la conoscenza e l’esperienza di vite passate. Era un cacciatore, e un vero guerriero, e suo padre lo era stato prima di lui; gli aveva insegnato a non avere mai paura, a non avere mai pietà.

Il Lupo annusò l’aria con un fremito delle grosse narici, i denti enormi e affilati, bene in vista, ascoltando. Poi si quietò, si avvicinò alla bimba e piegandosi, appoggiò la sua grossa testa sulle sue ginocchia, e con un dolcezza inaspettata le leccò la mano.

Lei e il lupo erano inseparabili.

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Disegno di Rossana Bossù –  Illustrator – http://www.rossanabossu.blogspot.it/